domenica 22 ottobre 2017

Essere AC: vi racconto il mio #FuturoPresente


Mi pregio di far parte dell'AC.
Ho conosciuto questa associazione a 11 anni, tardi rispetto a diversi amici che con essa sono cresciuti da molto prima. La notizia è che da allora non l'ho più lasciata.

Così mi sono ritrovata a festeggiare i 150 anni della sua storia, vivendoli da protagonista, dal momento che festeggiare è prendere parte a un evento per condividere la gioia che esso provoca. 

Quale gioia può provocare un secolo e mezzo di storia? 
Sembra chiaro che nella sua formula iniziale, nel suo DNA essa non abbia il gene dell'invecchiamento, ma la capacità di rendersi ogni volta nuova, perché fondata su solide e imperiture fondamenta: la fede che le dona stabilità e l'azione che la mette costantemente in moto.

Si dispiega in ogni generazione attraverso i volti e le storia di ogni aderente che fa dell'AC un aggregato forte di laici impegnati a servizio della Chiesa. Non era diverso 150 anni fa, quando l'Italia era stata resa un unico Regno da pochissimo tempo, ma di unitario aveva ben poco: nè una lingua, nè una cultura. Proprio allora l'intuizione di due giovani della mia stessa età di adesso, pensarono la cosa più semplice ma al contempo più complessa: stare insieme sotto un unico vessillo per svolgere quei servizi di cui la cittadinanza aveva bisogno.

La cittadinanza, il popolo. Non i fedeli, non i religiosi, ma tutti. L'Azione Cattolica si rivolgeva a tutti e in questa popolarità racchiude il segreto della sua giovinezza: l'essere in ascolto costante del mondo che la circonda, comprenderne le esigenze, formare coscienze in grado di farlo. 

Che ne è stato di quella AC?
Imperitura non significa certo intoccabile. Essere socio di AC oggi significa avere la responsabilità di rispondere a esigenze a cui altrove non si riesce a far fronte. Significa assumersi l'impegno di dire e fare bene, con un portato di coerenza che coerente non sarebbe con la crisi di questo tempo. 

Trovare nuovi linguaggi attraverso i quali ricondurre all'essenziale: essere, sapere, saper fare. Non certo in nome di se stessa: l'AC non deve mai essere autoreferenziale perché incarnata nella chiesa che, per sua vocazione, punta alla missione, che è andare verso, uscire.

Nel giorno in cui bisognava dare spazio alle emozioni, mi porto dentro innanzitutto i colori della mia Cefalù: il cielo terso, l'azzurro vivo che incorniciava la Cattedrale, maestosa e vivida, ai cui piedi centinaia di volti felici si schiudevano in un applauso.
Mi porto dentro le voci pulite e sincere di chi mi ha salutato stringendomi la mano o ha intonato un canto non solo con bravura, ma anche con passione.
Lo stridio della mia voce che provava a esprimere tutto in un grido, come se fosse possibile esprimere tutto quello che ho dentro facendo vibrare due corde.
Il grazie sincero di chi sa ancora stupirsi per un dono, gli amici, benedetti amici, che rendono più bella questa storia, lo spazio per un pensiero di rammarico, perché non c'è gioia senza una dose di dolore sofferto.
La disperazione che ci muove tanto quanto la speranza ma che è più difficile da vedere, le imperfezioni e gli sbagli tutti insieme a far festa nello stesso giorno. Grande assente la paura: non c'è paura nella verità, quando essa si compie.
Ho imparato che finché non avremo conosciuto il vero volto di noi stessi, permettendogli di emergere, non saremo che il nostro stesso riflesso.
E se questo è vero e vuole dire essere autentici allora posso esprimere, stavolta sì, a gran voce che nelle gambe, nel sorriso e nello sguardo di oggi, avrete potuto riconoscere una persona sinceramente affezionata all'AC o orgogliosa di sentirsi parte di una promessa che non invecchia ma si rinnova, che non si autoproclama ma si evolve, che non si dimentica, ma si racconta e si custodisce.
E così, nella massima espressione possibile di me, ve la consegno.

Essere Ac, coniugata al #FuturoPresente.

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